Guardando le mie figlie


Ogni volta che sento notizie che riguardano un'aggressione a degli stranieri, da qualunque parte del mondo, ci guardo in faccia. Mia moglie ha una faccia decisamente mediterranea. I suoi lineamenti e i suoi colori denunciano la sua origine anatolica. Immagino che in certi quartieri di Mosca, di Copenaghen, in certi paesetti dell'Austria o della ex DDR potrebbe avere problemi. Io ho un aspetto decisamente centro-nord europeo. Potrei avere problemi in Pakistan, in Yemen, in Iran. Solo per questa faccia che portiamo.

E allora guardo le due bambine che sono nate dalla nostra unione e mi trovo a sperare per loro che la genetica le doti di colori e di linementi piacevoli ma che non possano essere ascritti ad una "razza". Spero che siano abbastanza chiare da non aver paura dei nordici e abbastanza scure da non avere paura di quelli del sud. Spero per loro di essere indefinibili, mimetiche in quelle società razziste che reputano una minaccia la variante del color carne. Vorrei che le frontiere per loro fossero aperte, e in qualunque luogo decidessero di stabilirsi, una volta cresciute, potessero sentirsi a casa e accolte. Anche se per questo dovessero rinunciare alla loro identità, alla loro storia che le ha fatte nascere sul bordo del Mediterraneo ma anche ai piedi delle Alpi. A questo mi porta a pensare la paura che la responsabilità di essere padre mi crea.

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Commenti

  1. Oh, mica so spiegartelo.
    Ma m'è venuto mal di pancia.

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  2. La mia più grande speranza è che mia figlia possa vivere in un mondo senza passaporto. Utopia. Forse.

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