La piccola mamma se n'è andata


Mina se n’é andata.

Mina è nata nel millenovecentotrentadue, prima di sette fratelli e una sorella, in un’Italia povera e presuntuosa. È nata a Narzole, un paese di un paio di migliaia di persone, affacciato sull’altipiano che circonda la valle del Tanaro, tra Langhe e Roero.
Mina e i suoi fratelli ebbero il soprannome di caglié, perché papà Pietro era calzolaio. Mamma Delibera aiutava nel lavoro, a Mina toccò il ruolo di mamma. Per questo la chiamavano mama cita, la piccola mamma. Per tutti gli altri è stata Zia Mina.
Il 26 maggio, Anselmina Domenica, Mina, Zia Mina, Nonna Mina, mama cita, mamma se n’è andata.




Da bambina Mina amava vestirsi da Piccola Italiana e fare gli esercizi collettivi di ginnastica, in piazza Vittorio Emanuele. Un pomeriggio del quarantaquattro le scolaresche vennero riunite nella piazza per assistere all’impiccagione di un partigiano diciannovenne. Il ragazzo agonizzante e massacrato venne portato in una carriola e impiccato sul muro di Palazzo Balocco. A pochi metri, si apriva quella che sarebbe stata, quarant’anni dopo, la finestra della casa di Mina.

A undici anni portava la bicicletta piene di scatole di scarpe fino a Bra, a una quindicina di chilometri di distanza. I partigiani la fermarono sul ponte della Stura. Cosa c’è nelle scatole?, chiesero. Pietro si era raccomandato di non dire a nessuno cosa trasportasse, le scarpe, allora erano un bene prezioso. Spilli! esclamò Mina. Non le era venuto in mente altro. I partigiani risero e la lasciarono passare.
La Ghenga. Mina è la ragazza al centro vestita di scuro

Dopo la guerra la compagnia di amiche con cui passava il poco tempo libero si chiamava La Ghenga, come le bande dei gangster dei film americani che si proiettavano allora. Andavano a ballare, a fare scherzi nel paese a chiacchierare fino alla sera.
Mina si innamorò del figlio dei proprietari delle Cantine d’Italia, Bernardo, scampato alla deportazione, più grande di lei di otto anni. Si sposarono nel 1956. Quando le chiesi cosa ebbe di dote, ridendo mi disse: un saluto affettuoso. Si trasferirono a Torino dove Dino fece molti lavori, con una caratteristica comune: lo stipendio da fame, letteralmente. Ogni tanto arrivavano pacchi dal paese con roba da mangiare e si faceva festa.

Poi le cose andarono meglio. I due aprirono un bar latteria in un quartiere che stava nascendo in quegli anni: Santa Rita. Il bar è ancora lì. Comprarono un’appartamento in una casa che non esisteva ancora al prezzo di otto milioni di lire che pagarono per trent’anni. All’inizio del millenovecentosessantasei Mina cominciò ad accusare nausee. Mangiò solo gelati fino a metà luglio quando nacque il suo primo e unico figlio. Io. Cinque anni dopo il bambino restò quindici giorni tra le vita e la morte e Mina e Dino gli rimasero accanto tutto il tempo lottando con tutte le forze, come erano stati abituati a fare. Il bambino sopravvisse.
Ebbe un’amica del cuore, Vittoria, le cui due figlie furono per il bambino come sorelle. I bambini si promisero più volte il matrimonio. Ma quando furono grandi abbastanza erano ormai lontani.

Qualche volte mi aspettava a notte fonda quando tornavo dalle prove a teatro. Parlavamo di tutto. Una notte, sorseggiando un caffè disse: chissà come ci si sente a fumare l’erba. Sorrisi e le versai un’altro po’ di caffè.

Mina è stata operaia, contabile, fruttivendola e ha sempre rimpianto la scelta d’aver lasciato le scuole troppo presto. Confessava che, appena sposata, non sapeva far cuocere un uovo. Sposando il figlio di una cuoca imparò a cucinare. Molti sono stati quelli che hanno faticato ad alzarsi dalla sua generosa tavola. I palati ricordano i suoi gnocchi annegati nella fontina, il coniglio al civet macerato diciotto ore nel Barolo, le raviole che, con il marito, produceva a migliaia in giornate di intenso lavoro.

Finché ho potuto ho sempre portato gli amici a casa dei miei. Un giro per le Langhe e poi a pranzo da loro. I piatti di mia madre e le storie di mio padre li riempivano di sapore e di stupore. In quella casa sono passati italiani, tedeschi, laotiani, russi, polacchi, indiani, francesi, americani e turchi. 

Il mestiere che ha amato di più è stato quello di vice mamma. Non era facile per le fidanzate e mogli dei fratelli entrare in quella tribù allegra, sarcastica e piena d’amore. Zia Mina faceva da ambasciatore e consolava le ragazze prese di mira, le faceva sentire a casa e insegnava loro a rispondere colpo su colpo. Zia Mina è stata la vice mamma di tanti: Nino, Danilo, Elena, Stefania, Fabio, Jacopo, Elisa, Irene, Sofia e, per quel poco che ha potuto, anche di Emma e Mina.

Il 26 maggio, Anselmina Domenica, Mina, Zia Mina, Nonna Mina, mama cita, mamma se n’è andata, ma non definitivamente e non per sempre. Io, intanto, obbedisco ad uno dei suoi ordini più tipici. Piant’la ‘d piuré e date da fè.

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